Stato e Chiesa

Recensione a Gabriele Pepe, Stato e Chiesa, Roma, Colombo ed., 1946. «Europa Socialista», a. II, n. 7, 6 aprile 1947, p. 13.

STATO E CHIESA

Con notevole ritardo sulla data di pubblicazione (al quale ritardo non vorremmo avesse contribuito la posizione poco conformistica dell’autore) esce ora un notevole opuscolo di Gabriele Pepe, uno di quei liberali fuori dei partiti a cui mai si attagliò la nostra definizione di «liberalproprietari» e che con la sua uscita dal P.L.I. testimoniò la vitalità delle istanze liberali vicino alle sinistre, vicino alle esigenze concrete di rinnovamento sociale, non nei ristretti circoli dei «galantuomini» in cui ogni problema di libertà si rivela come copertina di privilegio illiberale.

Forse le formulazioni dello storico meridionale risentono di una certa accentuazione P.L.I. piú di quanto (l’opuscolo fu scritto agli inizi del ’45) egli stesso ora vorrebbe, e forse quanto egli dice dello Stato subirebbe ora nel suo pensiero precisazioni e modifiche, specie nei riguardi di quella ubicazione della libertà che si dimostra, al di là di ogni euforia, piú necessariamente circoscritta nei suoi limiti e nella sua difesa di fronte al liberismo nascostamente monopolistico di certi partiti. Comunque, nel momento in cui tutta l’Italia è risvegliata al problema dei rapporti Stato-Chiesa e viceversa tanti veli vengono stesi da ogni parte per colorare artificiosamente una cruda realtà, l’uscita del libretto di Pepe ci presenta il conforto di un’impostazione almeno polemicamente chiara, non soggetta al tatticismo di partito per cui concessioni poco sincere fatte per difesa vengono nel campo avverso utilizzate come gradino per ulteriori conquiste. (Donde il notevole fenomeno in questa Costituente, di democristiani che nelle loro diverse argomentazioni citano testi comunisti e socialisti per ricavarne ammissioni a loro favore, mentre al contrario uomini di sinistra citano «Civiltà Cattolica», «Études», «Vita e Pensiero»», Encicliche per cercarvi le prove della genuina intransigenza cattolica).

Pepe parte da una constatazione di storico: l’esistenza del dualismo Stato-Chiesa sulla base di principî ideali, e la doppia natura della Chiesa come antagonista dello Stato e Stato essa stessa; e dalla constatazione di studioso non partigiano che la distinzione fra Stato laico e Stato confessionale «riposa su fondamenti di ben piú ampio significato ed interesse spirituale che i meri fondamenti giuridici e politici», sul concetto immanentistico della spiritualità laica. «Lo Stato laico è figlio dell’immanenza: tutte le feroci lotte medievali, hanno svincolato lo Stato e le coscienze dalla trascendenza; hanno posto la legge fuori dell’eterno modello, del Paradigma sacramentale, e hanno disancorato lo Stato da ogni etica. Lo Stato laico è lo Stato che non conosce piú i limiti alla sua azione dalla Chiesa». Se lo Stato laico che garantisce tutti i partiti, tutte le confessioni, tutti i cittadini fosse «superato», tale superamento non potrebbe altro che condurre allo Stato confessionale, che a sua volta non riesce ad imporsi mai nella sua integrale pienezza, perché proprio nel suo realizzarsi «diventa cosí oppressivo da far insorgere lo spirito di libertà tra gli stessi cristiani (i primi anticlericali sono – come è notissimo – anime pie) per ricondurre a funzioni religiose la Curia e le gerarchie ecclesiastiche».

Questa nella sua crudezza la realtà del pendolo Stato laico – Stato confessionale e la vera ragione di certi facili disprezzi per il primo come antiquato non in certe forme legate a mentalità giacobina e massonica, ma nella sua essenza di garanzia della libertà. E a certi fastidi orgogliosi per «il logoro concetto di laicismo» si può pur sempre opporre la battuta di un inglese (riportata nello Zibaldone dal Leopardi) che a chi affermava con annoiata sufficienza che la democrazia è cosa vecchia rispondeva: «ma piú vecchia è la tirannia». Si dice però che i caratteri dello Stato confessionale quali si possono desumere dal Sillabo e dalla tradizione ecclesiastica non corrispondono piú alle dottrine aggiornate della Chiesa e magari alle posizioni degli avamposti tipo Maritain, che viceversa giunge alla piú rigida teocrazia ed all’esaltazione della continuità di impostazione ideologica fino a conclamare nel suo Primato dello spirituale: «La Chiesa non rinnega niente, non rinunzia a niente di ciò che ha determinato. L’enciclica Pascendi è sempre là, il Sillabo è sempre là, la bolla Unam sanctam è sempre là. Il liberalismo è sempre condannato; l’americanismo, il socialismo, il sillonismo, il modernismo sono sempre condannati, il laicismo è sempre e di nuovo condannato».

Ma Pepe con prudenza di storico non ricerca gli scrittori brillanti e forse alla fine piú ingenui, quanto quelle messe a punto di studiosi cattolici e politici che meglio possono indicare il ritmo medio del progresso e della persistenza cattolica. Come il libretto di Luigi Bender O.P., Chiesa e Stato (Roma 1945), in cui la separazione di Chiesa e Stato è combattuta in nome di una società perfetta che non può essere realizzata pienamente dallo Stato bisognoso dell’integrazione sovrana naturale della Chiesa. «Nel territorio di uno Stato la vita della Chiesa e la vita politica è la vita della totalità dei membri componenti lo Stato». Vita perfetta politico-civile e vita perfetta ecclesiastica o di cristiano sono «due parti componenti la vita umana perfetta. Questa vita perfetta è una perché l’uomo è uno, un solo essere. Ciò che è un solo essere non può avere due fini ultimi». Sicché la Chiesa tende a nobilitare lo Stato per poi servirsene nei confronti delle possibili autonomie degli individui e dei gruppi ribelli, come d’altra parte (e qui l’Alfieri aveva magnificamente intravveduto l’ossequio reciproco di Stato assoluto e Chiesa che riconoscono i loro diritti, ma non quelli dei popoli e degli individui) la posizione conservatrice esalta religione e Chiesa come strumenti di governo.

Dubbio può essere chi dei due piú guadagni nel carducciano «Quando Cesare dà la mano a Piero», ma si può anche pensare che la dottrina della «potestas indirecta» di Bellarmino possa alla lunga dare vantaggi a quell’ente che ha maggiore capacità di controllo e di autorità carismatica: «Basta che una cosa sia, sotto un certo aspetto, spirituale per essere sottomessa alla potestà della Chiesa».

Da questa premessa che certo i cattolici di oggi non rinnegano, il Pepe ricava alcune ovvie deduzioni pratiche che impegnano il nostro destino di uomini liberi. «Una delle cosucce che, sotto questo aspetto, sono spirituali, è la scuola; dunque la scuola deve essere sottomessa alla potestà della Chiesa». E non sarà certo un socialista che per malinteso patriottismo di ideologia protesterà nella situazione attuale contro la constatazione che Pepe, in veste ancora di militante del P. L. I. rivolge agli uomini di sinistra. «L’Italia non l’hanno rivoluzionata ieri gli operai perché quelli che avrebbero dovuto guidarli, i medi e piccoli borghesi, si fecero dannunziani, nazionalisti, futuristi, fascisti; non la rivoluzioneranno domani se la classe – come essi amano dire – piccolo borghese che dà anche a partiti operai l’indispensabile fermento ideologico, sarà educata nelle scuole cattoliche, conformistiche». Perché anche l’immissione di energie fresche ed incorrotte quali noi vediamo negli strati popolari rimasti intatti dalla cultura e ricchi di forze inesplose, è certamente condizionata dalla vitalità aperta della scuola in cui la loro immissione avverrà, sicuri ugualmente che una vera trasformazione sociale è tanto piú valida quanto piú è coerentemente svolta in un’atmosfera di coscienza aperta che solo una scuola non confessionale può favorire.

E non ci sembra ingiustificata da un punto di vista generale la preoccupazione che Pepe esprime con un linguaggio agitato e impaziente, che un tentativo di «teocrazia» comunque velata possa prodursi proprio in Italia anche se la diagnosi delle «miserie» d’Italia possa apparire piú sconfortante e apocalittica di quanto non appaia a noi, forse piú sensibili alla presenza nuova di moltitudini della periferia che nel loro nuovo legame con le avanguardie intellettuali rappresentano una garanzia di concretezza e di durata all’azione di un laicismo vigoroso e modernamente cosciente. «Per l’Italia la conquista si annunzia facile: si raccolgono immensi strati di popolo impaurito dalla minaccia di nuove dittature, istupidito politicamente da venti anni di fascismo e da una propaganda di stampa e di qualunquismo antipolitico, intorno alla bandiera che si fregia della croce e della fatidica parola Libertà (che sia veramente scritta in latino vuol dire, involontariamente, che non si è aggiornata e che non si tiene ad aggiornarla, essendo cose ben diverse la libertas classica e medievale dalla libertà moderna); si agita il panno rosso del puritanesimo antipornografico per incominciare a varare le leggi che creeranno la confusione di etica e politica, fondamento teorico e strumento pratico di ogni dittatura; si difende il concordato fascista; si appoggia la vecchia burocrazia; si crea una rete di favoritismi e di protezioni. L’Italia è già ignorante e guasta: si fa presto a impadronirsi di chi non ha forza di resistere». Desolato pessimismo che cela l’ansia di un uomo moderno appassionato non a parole per la libertà ed accresciuto di un’inutile aspettazione di vita da parte di quei «liberali» che ancora Pepe vedeva depositari delle esigenze risorgimentali.

Ora i liberali, tranne quattro, hanno votato a favore dell’articolo 7 ed anche con ciò hanno rigettato l’ultima funzione «liberale» che uno storico potesse con molta generosità attribuire loro. Il problema rimane cosí affidato alle forze politiche socialiste, la cui tattica piú sconvolgente potrebbe essere proprio quella di portare avanti con sincerità e con uguale fermezza la trasformazione sociale e la garanzia non retorica di uno sviluppo dell’«uomo».